Quello di cui voglio scrivere, a confronto con gli effetti che la politica crea nelle vite di minoranze ed emarginati, vittime del gioco di spostare l'attenzione, è di poco conto. Però è una storia personale che mi porto appresso da 25 anni.

1994, Primo governo Berlusconi: avevo 14 anni e capivo di politica tanto quanto il mio diario con citazioni del Che e un logo, graficamente affascinante, di Alleanza Nazionale.

Lo so.

Già me ne vergogno parecchio. Prima di giudicare tenete a mente che sono stato cresciuto poco esposto alla politica – inserire qui pippone sul privilegio – cosa che tra poche righe non suonerà più tanto strana.

Mia madre di politica ha sempre capito quanto me mentre guardavo Baggio e Baresi piangere a Pasadena. La sua unica esposizione era legata alla realtà locale – che in Emilia Romagna è sempre stata monocolore, seppure con risultati tendenzialmente positivi – e alla difficoltà per una donna, pur brillante, di fare carriera a Modena nel pubblico, senza tessere di partito.

Se mia madre fosse stata più attenta sarebbe diventata femminista. Purtroppo, invece, si fece trascinare da qualche conoscente in una lista civica legata alla destra berlusconiana. Divenne la faccia locale del partito.

Poco tempo dopo, ho iniziato a realizzare la coglionaggine l'ingenuità di entrambi e non sono mai riuscito del tutto a perdonargliela: lei era l'adulto e aveva la responsabilità di capire e tradurre. Se anche sono sceso a patti col mio diario, crescendo – e producendo agende Comix molto più coerenti –, non sono riuscito a superare il fatto che l'interesse politico di mia madre si limitasse a qualche voce scambiata nei corridoi dell'ospedale e alla rassegna stampa del TG5. Poi c'è anche da dire che mia madre frequentava tendenzialmente persone di merda, ma se guardo il mio Facebook oggi fatico a difendere le mie, di conoscenze: non mi sento di giudicare.

La mia adolescenza e parte dell'età adulta, da un certo punto in poi e fino alla caduta di Berlusconi, sono state costellata da litigi e incomprensioni legate alle mie posizioni politiche, devianti da quelle famigliari.

In un'occasione specifica, la sera in cui per la prima volta in vita mia fumai una sigaretta in presenza di mio padre, ricordo che gli chiesi come poteva permettere che persone come Fini o Bossi sputassero sulla bandiera. Non ricordo la risposta, ma sono certo non fosse interessante.

Per chiarire le ragioni della mia domanda e la supposizione sulla risposta, avrei dovuto fare un paio di premesse. Mio padre, cresciuto in una famiglia povera, aveva intrapreso la carriera militare; tra le altre cose aveva partecipato alla campagna in Irpinia dopo il terremoto e in Yugoslavia durante la guerra e, a differenza di mia madre, ha sempre letto tanto e si è sempre informato seppure su fonti spesso discutibili. Il suo problema, però, è sempre stato essere assolutamente e intrinsecamente democristiano: un benaltrista da manuale. Una persona per cui "eh ma son tutti uguali" era il mantra per chiudere le conversazioni spiacevoli. Ovvero tutte quelle con me, a tutt'oggi. Mantra che, inutile dirlo, non fa altro che farmi chiudere svariate vene e incancrenire le posizioni.

A distanza di 25 anni, con un Berlusconi irrilevante, le posizioni si sono addolcite: gli ho condonato la fase renziana – perché naturale evoluzione del cuor democristiano – e, a differenza del resto della mia famiglia, i miei non sono passati dalla padella di allora alla brace grillina o leghista. E questo gli fa onore, anche se temo che l'unico argine rimasto sia l'essere cattolici praticanti e non so quanto può durare.

A volte mi chiedo come sarebbe stato il nostro rapporto senza la Seconda Repubblica. Probabilmente non avrei comunque rispettato la loro inedia politica, o forse mi ci sarei adagiato anch'io, vista l'assenza di ragioni per farsi coinvolgere. Difficile da dirsi. Quello che so è sono a circa 10 anni dalla parte sbagliata della citazione di Flaiano – "se non si è di sinistra a vent'anni e di destra a cinquanta, non si è capito niente della vita" – e per ora son ben felice di essere ancora un coglione.

"Ho troppa stima per l'intelligenza degli italiani per poter credere che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare contro i propri interessi"